Asfalto, autostrade e sostenibilità ambientale (a cura di Andrea Rolfi e Paolo Gaffurini)

Cittàperta Brescia desidera esprimere preoccupazione relativamente alle ipotesi, apparse sui principali organi di stampa locali nei giorni scorsi, di realizzazione di ulteriori ampliamenti delle infrastrutture già presenti sul nostro territorio e dedicate al traffico veicolare.

Desta forte perplessità la proposta dell’On. Casasco, a cui si è subito accodato sia il mondo dell’imprenditoria che parte del mondo politico, di indire un tavolo di lavoro per definire “un patto bresciano per le infrastrutture” e cogliere, a suo dire, l’“evoluzione sostenibile” dell’autostrada A4 non accontentandosi della realizzazione quarta corsia tra Mestre e Brescia Est (ipotesi, ahinoi, già al vaglio del Ministero delle infrastrutture), ma aggiungendo collegamenti verso la BreBeMi, il Garda, la Corda Molle, l’aeroporto di Montichiari e il tratto tra Sarezzo e Ospitaletto.

A queste ipotesi aggiungiamo quella prospettata dall’On. Girelli il quale, in un comunicato stampa, ipotizza un ampliamento delle corsie nel tratto di A4 che va da Brescia est fino a Bergamo e che, ovviamente, vedrebbe interessato anche il territorio cittadino.

In un territorio ove è stata già prevista la TAV per il trasporto su ferro e dove, non più di dieci anni fa, è stata realizzata la BreBeMi che, nelle ipotesi millantate all’epoca, avrebbe dovuto alleggerire il traffico dell’A4 in direzione Milano, vengono proposte ulteriori infrastrutture senza porsi minimamente il problema del consumo di suolo, in un territorio che sul tema ha già abbondantemente dato, che la realizzazione dell’opera comporterebbe.

Tali ipotesi, poi, vengono paventate a pochi giorni dalla pubblicazione dell’ISPRA sul consumo di suolo: la provincia di Brescia e la Lombardia sono state inserite nelle prime posizioni di questa poco invidiabile classifica.

Non solo si propone l’ampliamento e la distruzione del poco suolo rimasto nelle zone limitrofe le già presenti infrastrutture, ma lo si fa motivando questi interventi in nome della sostenibilità ambientale e rispetto dell’ambiente.

Pare fuori da ogni logica che la costruzione della linea dell’alta velocità e la presenza di un’altra autostrada che conduce nella medesima direzione non siano sufficienti a fermare nuove colate di cemento e asfalto atte solamente a incoraggiare la mobilità su gomma che andrebbe invece calmierata e ridotta il più possibile.

Siamo fiduciosi/e che la politica locale e nazionale segua il buon esempio della Sindaca Castelletti, dell’ex Sindaco Del Bono e del settore Urbanistica in Loggia, che sia nella precedente che nell’attuale amministrazione si sono impegnati ad agire senza ulteriore consumo di suolo, ascolti questo nostro appello, si opponga a questa cementificazione selvaggia e dimostri responsabilità nelle scelte e nel futuro immaginato per Brescia e la sua provincia.

Il tempo è ora: mobilità e ambiente (a cura di Paolo Gaffurini)

Il tempo è ora. È il titolo che abbiamo voluto dare alla rassegna di incontri che abbiamo organizzato, a partire da quello sulla mobilità sostenibile e attenzione all’ambiente di Brescia. Tempo che i cittadini e le cittadine non possono perdere e sprecare per muoversi in una città che deve essere inclusiva e deve rimettere al centro le persone. Tempo che non possiamo più sprecare senza mettere al centro delle politiche cittadine le questioni della sostenibilità ambientale e riduzione delle emissioni di gas serra.

Per farlo abbiamo invitato a dialogare con noi, il 28 giugno 2022 presso la cascina del parco Gallo, l’assessore alla mobilità Federico Manzoni, l’ex assessora all’ambiente Miriam Cominelli e l’ingegnere Giovanni Mori.

Nel dibattito entrambi gli assessori hanno voluto rimarcare le buone decisioni e le opere attuate durante il loro mandato elettorale. Hanno sottolineato come Brescia abbia fatto buoni passi avanti sul fronte della mobilità sostenibile, con un aumento progressivo dei passeggeri del trasporto pubblico urbano nonostante gli effetti negativi della pandemia. Numerosi e cospicui sono stati gli investimenti sulla rete ciclabile, ultimo tra tutti quello del biciplan, oggi in attesa solo di approvazione.

Per le tematiche ambientali, a fronte di una qualità dell’aria molto deficitaria dell’intero bacino padano, Brescia osserva un trend in lento miglioramento pur senza avere attuato grandi strategie di risposta a questa grossa criticità. Brescia si distingue per una buona raccolta differenziata pur non mostrando cali significativi nella produzione dei rifiuti pro capite.

Come Cittàperta abbiamo sottolineato l’importanza di politiche più coraggiose e ambiziose, sia in termini di mobilità sostenibile che sulle tematiche ambientali. Vogliamo che Brescia diventi un modello virtuoso non per la quantità di rifiuti riciclati, quanto per la riduzione dei rifiuti pro capite prodotti; questo obiettivo può essere raggiunto solamente con un sistema di raccolta porta a porta con tariffazione puntuale.

Crediamo fortemente che il Comune di Brescia debba prevedere una piantumazione e riforestazione ovunque possibile, anche nel centro storico, per mitigare i cambiamenti climatici e contrastare le ondate di calore che sempre più affliggeranno le nostre latitudini durante il periodo estivo.

Sul fronte delle comunità energetiche, il Comune dovrà investire energie e risorse per farle conoscere ai cittadini: queste devono diventare uno strumento utile sia al risparmio economico, che alla produzione di energia elettrica in modo rinnovabile; peraltro possono rappresentare anche un formidabile strumento per mettere in rete i cittadini e farli diventare attivi protagonisti in un settore così importante quale quello energetico.

Relativamente alla mobilità sostenibile a Brescia, siamo convinti che sia necessario allargare la ZTL a tutte le mura Venete, impedendo la permeabilità al traffico di attraversamento che ancora grava sul centro storico. Andrà attuato ogni punto del Biciplan, senza alcuna esitazione, procedendo a riorganizzare vie critiche della città così come ottimamente fatto per Via Veneto. Vorremmo vedere un fitto programma di “domeniche ecologiche”, allargate non solo al centro storico, ma estese ai quartieri con la chiusura temporanea e sperimentale anche vie e strade di scorrimento per far capire alla cittadinanza che lo spazio è pubblico e di tutti/e.

In conclusione, riprendendo il titolo di questa serie di incontri, il tempo delle mezze misure e degli interventi fatti per cercare di non scontentare nessuno è terminato. Dobbiamo sforzarci di sognare, di immaginare un futuro delle nostre città davvero innovativo e rivoluzionario perché il tempo è ora.

Il tempo è ora: Brescia, città inclusiva? (a cura di Giuditta Serra)

Abitare. Abitare una casa, una strada, un quartiere, una città. Il tema è di primaria importanza per il vivere individuale e sociale e, mai come negli anni del covid, è diventato lampante come l’abitare non sia un fatto esclusivamente privato, quanto il frutto dell’incrocio di coordinate delineate da condizioni economiche, ambienti sociali, politiche urbane e contesti comunitari.

Come Cittàperta abbiamo scelto di riflettere sul tema dialogando con persone che si occupano dell’abitare Brescia da anni, lavorando a partire da punti di vista differenti e con metodi complementari. In particolare, come moderatrice della serata abbiamo avuto il piacere di dialogare con l’attivista Lara Cornali di Associazione Perlar, il presidente di Associazione Parco di Piero William Gargiulo, il presidente della Cooperativa La Rete Domenico Bizzarro e il presidente del Consiglio Comunale Roberto Cammarata.

L’incontro è stato l’occasione per conoscere concretamente il lavoro delle diverse realtà invitate, a nostro parere davvero prezioso, al fine di scoprire le loro sperienze e riflettere insieme su quale sia la cifra del loro lavoro, il metodo e l’approccio che rendono efficaci e virtuose queste proposte.

A partire proprio dall’impegno di associazione PERLAR raccontato da Cornali, il cui nome significa “Per La Relazione”, ed è un’associazione di giovani nata per dare supporto alle persone senza fissa dimora attraverso l’organizzazione di eventi e iniziative, al fine di dar loro sostegno ed evitarne, o quantomeno mitigare, l’isolamento e l’emarginazione sociale. L’associazione si fa anche portavoce presso le istituzioni al fine di perorare la causa delle persone senza dimora e promuovere politiche necessarie all’avviamento di percorsi di riscatto, come per esempio la possibilità di formalizzare l’iscrizione anagrafica nel territorio del comune di soggiorno.  

La seconda esperienza presentata da Gargiulo è il progetto CIBO PER TUTTI, nato come esperienza spontanea e autogestita di mutuo-aiuto per rispondere al bisogno di svariate persone e famiglie che nei primi mesi del 2020 si sono trovate all’improvviso senza possibilità di sostentamento a causa dell’emergenza Covid-19; il progetto è nato nella cucina del ristorante di Iyas il quale, non volendo sprecare le scorte in scadenza del ristorante costretto alla chiusura, ha avviato un primo sistema di distribuzione di pasti a domicilio. In breve tempo il bisogno e le richieste sono aumentate, così come si si sono moltiplicate le offerte di aiuto e collaborazione, fino ad arrivare all’erogazione di decine di migliaia di pacchi all’anno. Questo grande risultato è senza dubbio stato reso possibile dalla disponibilità dei volontari e dalla capacità di lavorare insieme, per un progetto condiviso.

In ultimo abbiamo ascoltato il racconto di Bizzarro, il quale ha ripercorso i trentacinque anni di lavoro della cooperativa La Rete che si è impegnata per migliorare il benessere e la qualità della vita delle persone con disabilità, offrendo percorsi personalizzati di accompagnamento per gli utenti e le loro famiglie. Un lavoro svolto a cavallo tra le contraddizioni imposte da politiche locali troppo spesso schiacciata tra punti programmatici e ricerca del consenso, ma sempre cercando di costruire un percorso condiviso di responsabilità con beneficiari, personale dipendente e persone volontarie, che a diverso titolo hanno collaborato alla realizzazione dei servizi. Un impegno che ha cercato di raggiungere l’obiettivo casa attraverso percorsi di autonomia abitativa centrati sul lavoro e sul sostegno reciproco.   

È stato interessante partire da queste testimonianze per riflettere insieme e individuare gli elementi salienti di queste esperienze, ossia quegli approcci che hanno determinato un cambio di modello permettendo un passaggio dall’assistenzialismo classico ad un formato più partecipativo e comunitario. Il primo elemento dirimente, emerso da tutti e tre i racconti, è stata senza subbio la scelta di passare dal “fare qualcosa per” al “fare qualcosa con”. Infatti, quello che portiamo a casa dal punto di vista della riflessione civica, è sicuramente un senso di convergenza rispetto ad alcune parole, che sono state riprese e rilanciate da tutte le persone intervenute nel dibattito: in primo luogo i termini relazione e insieme, che sono diventati strumento e metodo per lavorate a partire dalle diversità in modo sinergico. Infatti, le esperienze raccontate hanno in comune il tentativo di superare la dicotomia tra aiutante e bisognos*, nel tentativo di creare servizi che possano essere luoghi di comunità abitati da persone diverse, in relazione tra loro, ognuna a partire dalle proprie fragilità ma anche dai propri punti di forza, in un circolo virtuoso in cui anche i/le cosiddett* beneficiar* possono scoprirsi risorsa. In questo dialogo il tema della relazionalità è stato indicato come decisivo non solo a livello personale, ma anche come metodo di lavoro tra le diverse realtà che abitano la città: associazioni, cooperative, privato sociale, industria, pubblica amministrazione e istituzioni. I luoghi di comunità sono, e devono essere, abitati dalla diversità: da diversi desideri e diverse vocazioni che coabitano nello stesso spazio pubblico e, mossi dalla responsabilità, si combinano generando approcci complessi finalizzati alla cura condivisa della collettività. Perché il convivere delle diversità, e Brescia ha una lunga esperienza in materia, pone sfide importati per la società civile, la quale è chiamata a trasformarsi e a trovare pratiche e strategie capaci di promuovere e rigenerare ogni giorno la concordia civile.

Da qui ha preso il via anche la riflessione di Cammarata, il quale ha cercato di rappresentare in che modo, e in quale misura, questo contesto proattivo e multiforme rappresenti una sfida permanente non solo per la società civile, ma anche per l’amministrazione pubblica, la quale si trova giorno dopo giorno a dover coniugare, avvicinare e ricucire, le politiche di sistema con le iniziative spontanee dalla società civile. Cammarata ha esplicitato che il lavoro dell’amministrazione comunale ha fortemente voluto valorizzare il lavoro del privato sociale e delle associazioni, nella consapevolezza che le istituzioni non possono, e non vogliono, essere le uniche custodi responsabili della cittadinanza e della comunità. Per far sì che questo avvenga è responsabilità dell’amministrazione locale integrare le diverse anime della città: costruendo un sistema che permetta ai servizi sociali di coesistere con le iniziative di mutuo-aiuto, alle realtà imprenditoriali di collaborare con le associazioni di volontariato, al privato sociale di integrarsi con i servizi pubblici e con il mondo del privato. Esperienza e contesti che hanno velocità ed esigenze diverse, ma che insieme possono rispondere in modo integrato ai problemi e alle sfide che, sempre più spesso, si presentano in modo irruento e con carattere emergenziale.

Via Veneto è e dev’essere di tutti i cittadini (a cura di Paolo Gaffurini)

Gentile direttore,

come Cittàperta Brescia vorremmo esprimere il nostro pensiero sul progetto di riqualificazione di Via Veneto, in vista dei due incontri che si terranno lunedì 6 e martedì 7 giugno.

Partiamo dall’osservazione dei fatti che sono e che sempre furono: Corso Zanardelli da asse di scorrimento a cuore del commercio del centro storico, Piazza Duomo da parcheggio a spazio d’incontro, Piazzale Arnaldo da stucchevole carosello motorizzato serale a luogo interamente conviviale. Per citarne solo alcuni. Chi tornerebbe indietro? Eppure le polemiche ci furono anche all’epoca, messe poi a tacere dai numerosi benefici delle trasformazioni.

Come secondo aspetto, troviamo curioso che venga criticato, da cittadini e personalità più o meno note ma senza alcuna competenza nel merito, il lavoro di progettazione svolto da Matteo Dondè, architetto urbanista di fama internazionale, che da decenni opera in questo ambito. Certo, è giusto e doveroso che il comune nel percorso di progettazione, ascolti le istanze dei residenti e dei commercianti che non devono però ritenere che la via sia di loro proprietà. Via Veneto è e deve essere dei cittadini tutti, nessuno escluso.

Il percorso partecipativo poteva essere svolto meglio? Forse sì, ma nessuno può affermare che non vi siano stati incontri di confronto, in seguito ai quali sono state date risposte e motivazioni circostanziate per le decisioni prese.

Usare gli slogan “Brescia non è Copenhagen, Brescia non è Amsterdam” non depone a favore di chi si oppone al progetto. Nemmeno le città prese ad esempio sono sempre state come oggi le vediamo. Hanno subito modifiche e cambiamenti ben più drastici di quelli che vedremo in Via Veneto e nessuno, in quelle città, tornerebbe a volere auto sui marciapiedi, smog e rumore, in tutte le zone dove il traffico è stato limitato e ridotto.

Riteniamo, inoltre, che in un contesto di crisi internazionale sia climatica che politica, in buona parte legata all’utilizzo dei combustibili fossili, essere contrari a questo tipo di progetti denoti scarsa lungimiranza e una visione antiquata di quello che sarà il nostro futuro prossimo.

La politica incontra l’arte grazie alla collaborazione tra Cittàperta e Our Production

Cittàperta Brescia e Our Production annunciano l’uscita sui propri canali social (Facebook e YouTube) di tre interviste realizzate da artisti a politici locali con l’intento di mettere in contatto l’amministrazione comunale, la politica e il mondo dell’arte.
I tre video vedono come protagonisti il Sindaco Emilio Del Bono in dialogo con il noto rapper Slava, la Vicesindaca e Assessora alla Cultura Laura Castelletti intervistata dall’artista e pittore Keita Nakasone e, infine, il Presidente del Consiglio Comunale Roberto Cammarata si confronta con la teatrante Silvia Casamassima.

I video, pubblicati ogni lunedì per tre settimane, saranno anticipati dai relativi teaser. Le date di pubblicazione sono le seguenti:

Cittadinanza e comunità”: Emilio Del Bono dialoga con Slava 14 marzo (teaser 11 marzo)

https://www.youtube.com/watch?v=IL_X2bRNflo;

Cultura come patrimonio universale”: Laura Castelletti dialoga con Keita Nakasone 21 marzo (teaser 18 marzo);

Brescia alla prova ambientale”: Roberto Cammarata dialoga con Silvia Casamassima 28 marzo (teaser 25 marzo).

Elezioni amministrative: affluenza e parità di genere (a cura di Andrea Rolfi)

Pur rallegrandomi per la vittoria dei tanti candidati sindaco del centrosinistra in queste elezioni amministrative, sopratutto nelle città capoluogo di provincia, non posso fare a meno di cogliere due dati preoccupanti che scaturiscono da questa tornata elettorale.

Il primo dato, di cui si è già parlato nelle scorse settimane, è quello relativo all’affluenza. Negli anni abbiamo visto un costante calo nella partecipazione al voto tra elezioni politiche ed europee, ma ora che si è palesato, in maniera ancor più dirompente, anche in queste elezioni amministrative, forse riusciamo a renderci conto di quanto la nostra democrazia rappresentativa sia in crisi. Tra le cause di questa disaffezione merita, a mio avviso, menzione la cosiddetta legge dei sindaci. La legge 81/1993 è stata istituita a cavallo tra la prima e la seconda Repubblica, nella stagione della crisi irreversibile dei partiti di massa: la Dc si stava sgretolando sotto la mannaia di “Mani Pulite”, il PCI aveva cambiato nome e identità e il PSI diventava sempre più irrilevante. Essa ha rappresentato la personalizzazione della politica, i “prodromi dell’uomo solo al comando” (cit. Alfredo Morganti) e ha sancito il passaggio del potere politico dalle collettive e complesse organizzazioni partitiche alla figura del singolo leader a cui affidarsi per risolvere i problemi. La legge prevede che al Sindaco, scelto direttamente dagli elettori e reputato quindi più “vicino” ad essi e alle loro necessità, venga affidato, tra le altre cose,il potere di nominare e revocare gli assessori a suo piacimento e di concludere anticipatamente la legislatura in caso di dimissioni; essa ha inoltre introdotto un meccanismo elettorale maggioritario che ben poco spazio politico lascia a chi fatica a trovarsi in una delle due coalizioni principali e ha sminuito gravemente il ruolo del Consiglio Comunale, passato da luogo primario di discussione pubblica e decisioni a ricoprire il ruolo di sostenitore delle scelte strategiche per le città prese da Giunta e Primo Cittadino. Può essere che i cittadini si siano stancati di questo sistema che li vede passivi nella scelta di una persona ogni cinque anni e non cittadini attivi rappresentati nel dibattito pubblico e assembleare? Possiamo mettere in discussione un modello che, come testimoniano i dati elettorali, non funziona più? Sarebbe bello si potesse iniziare una discussione pubblica su questo.

Il secondo punto è quello relativo alla mancata presenza di candidate di genere femminile per la carica di sindaco in quasi tutte le città. Oltre alle due presentate dal M5S a Torino e Roma, nient’altro all’orizzonte: il centrodestra ha preferito schierare candidati impresentabili un po’ ovunque (vedasi soprattutto Milano e Roma) mentre il centrosinistra ha puntato su profili decisamente migliori e validi, ma sempre di genere maschile (eccezion fatta per la regione Calabria dove la partita era data per persa). Alcune donne, ad esempio la brava Emily Clancy a Bologna, diverranno vice dei nuovi eletti, ma possiamo veramente accontentarci di questo? Se veramente la sinistra vuole essere all’avanguardia sui temi di genere, non serve un po’ più di coraggio nelle scelte? Continuiamo a pensare che ci serva il leader maschio forte o mettiamo davvero in pratica con gesti forti quello che da tempo la società chiede, ossia che la politica non è cosa riservata agli uomini e che un approccio femminista possa essere migliorativo in tutti gli ambiti della nostra società? Nella nostra comunità ci sono soggetti femminili competenti, capaci e che si spendono notevolmente per la collettività, ma non viene loro permesso di emergere e vengono spesso messe in ombra da colleghi meno meritevoli e dotati, ma uomini e premiati in quanto tali. Questo accade sia nei luoghi di lavoro che negli ambienti politici. Per fare degli esempi, Christine Lagarde, Ursula Von der Leyen e, fino a poche settimane fa, Angela Merkel erano le tre figure ai vertici delle istituzioni europee. Tutte e tre donne, nessuna appartenente politicamente alla sinistra. Urge riflettere, ma soprattutto agire.E a Brescia? Se guardiamo agli ultimi vent’anni il centrosinistra unito non ha mai presentato una candidata sindaca, ma ha sempre optato per colleghi uomini. Il centrodestra invece l’ha fatto per ben due volte (Beccalossi e Vilardi). Nel 2023 si vota, il bravo sindaco Del Bono non si potrà ricandidare e si aprono possibilità per una figura femminile. Sarà la volta buona per vedere una candidata credibile, competente e soprattutto donna? Mi auguro di sì e se così non dovesse essere, spero si lavori in quest’ottica da qui al 2028. Perché buona cosa è parlare di parità di genere, ma per essere credibili agli occhi dell’elettorato, bisogna anche metterla in pratica.

Lettera aperta al Prefetto e al Sindaco (a cura di Alessandro Augelli)

A proposito di utilizzo politico degli spazi pubblici… La risposta di Cittàperta al comunicato stampa relativo alla riunione del Comitato Provinciale per l’Ordine e la Sicurezza Pubblica.

Perché chiudere le piazze? È davvero necessario? Negli scorsi giorni ho avuto modo di leggere il comunicato stampa relativo alla riunione del Comitato Provinciale per l’Ordine e la Sicurezza Pubblica e ho appreso con preoccupazione, occupandomi di giovani e partecipazione in questa città, il passaggio in cui viene “esclusa dai percorsi delle manifestazioni” la possibilità di transitare nelle “principali piazze della città, cioè piazza Loggia, piazza Vittoria, piazza Paolo VI e piazza Mercato, per il loro profilo storico, culturale e socio-economico” in particolare nelle giornate di “venerdì e sabato”.
In primo luogo perché storicamente le piazze delle città rappresentano uno dei luoghi della politica e della democrazia. Siamo certi che escludere il passaggio non sia lesivo della libertà di movimento e di espressione delle opinioni politiche? Se togliamo questo aspetto, cosa resta in quelle piazze, il consumo e il commercio?  
È giusto che i cittadini abbiano la possibilità di dedicarsi a una giornata di shopping in centro, ma perché questo deve essere in contrapposizione all’inalienabile diritto di esprimere la propria opinione in modo civile e nel rispetto delle norme?
Questo orientamento arriva a pochi giorni di distanza dalla manifestazione del 24 settembre 2021, organizzata dal movimento Friday for Future, in cui una moltitudine di giovani ha preso parola su temi che riguardano il futuro della città e più in generale del pianeta, in modo autentico, comunicativo e rispettoso, dando un’immagine dei giovani diversa da quella che quotidianamente occupa la cronaca locale dei quotidiani. 
Quale tipo di messaggio vogliamo restituire ai giovani che hanno dato vita a questo tipo di movimento? Da oggi nel centro vitale della città non ci possono più essere spazi pubblici, ampi e visibili, dove esprimere le richieste di cambiamento? 
Infine, ho trovato inusuale la forma del comunicato stampa come strumento di indirizzo, certo oggi la comunicazione tempestiva ai media è un aspetto importante, ma mi domando quali siano gli atti amministrativi conseguenti o a supporto di tale decisione. 
Sperando di ricevere risposte alle molte domande che vi ho posto in questa lettera colgo l’occasione per salutarvi cordialmente.

Cos’è il femonazionalismo? (a cura di Piero De Luca)

«Non è stata data la giusta attenzione alle modalità attraverso cui le ideologie razziste e le istituzioni anti-immigrazione vengono incentivate e modellate dalle campagne islamofobe in nome della parità di genere»

Sara R. Farris

Diventato una categoria analitica di riferimento per molte pubblicazioni e dibattiti femministi, il concetto di “Femonazionalismo” è stato perfettamente spiegato da Sara Farris, professoressa associata presso la Goldsmiths University di Londra, durante l’incontro con Cittàperta di martedì 20 aprile insieme a Raisa Labaran e Munia Deguig del Centro Culturale Islamico di Brescia e dei Giovani Musulmani d’Italia.

Nel libro “Femonazionalismo. Il razzismo nel nome delle donne” l’autrice esamina come i nazionalisti di destra, i neoliberisti e alcune femministe e organizzazioni per le pari opportunità, invochino tutti i diritti delle donne con l’obiettivo di stigmatizzare gli uomini musulmani e aumentare i consensi politici con le loro politiche anti-migranti. Partendo dal presupposto che Sara Farris riconosce perfettamente la posizione di “svantaggio” sociale delle donne, soprattutto delle donne musulmane, la sua critica è rivolta all’ormai diffusa idea che siano le vittime per eccellenza, così come vengono rappresentate nel nostro immaginario di europei.

Il maschio islamico è dunque l’oppressore e la donna islamica è la vittima. Il messaggio è stato fatto proprio da partiti di destra, le cui politiche sono analizzate in modo accurato dall’autrice, che prende in esame l’olandese Parttij voor de Vrijheida, il francese Front National e l’italiana Lega di Matteo Salvini, confrontando le dichiarazioni e le politiche di integrazione proposte. Queste idee si sono diffuse tra chi difende il sistema neo liberale e tra alcune donne – “femocrate” per dirla alla Farris –  in una sinergia fragile, che può essere reversibile se criticata e destrutturata culturalmente, ma che è stata amplificata in modo enorme dai media, radicandola nel senso comune.

Sara Farris sceglie di usare il termine “convergenza” che meglio descrive la fluidità, il fatto che persone e personaggi politici provenienti da progetti politici molto diversi stiano convergendo in questo spazio dove sussistono molte contraddizioni. Ci troviamo di fronte a qualcosa di “non nuovo” rispetto a ciò che sta accadendo. Ci sono nella storia esempi di imperialisti e colonialisti che sostengono di portare la “civiltà” in “paesi incivili”, e questo comprende i diritti delle donne. In Algeria, negli anni ’50, l’esercito francese sviluppò questa ossessione per cui bisognava togliere il velo alle donne musulmane. Anche alcune femministe hanno sostenuto queste imprese coloniali nel nome dei diritti delle donne. Ciò che si è affermato dall’11 settembre in poi, è la crescente popolarità dell’idea che i diritti delle donne siano particolarmente in gioco quando si tratta di comunità musulmane.

Un altro aspetto sui cui si è soffermati, e che trova degli argomenti in comune con Il Manifesto della Cura, guarda all’aumento della domanda in Occidente per il lavoro femminilizzato – assistenza all’infanzia, badante, assistenza agli anziani, pulizia, lavoro domestico – e come questo si riferisca al trattamento delle donne migranti musulmane in particolare.  Come ribadito da Sara Farris, durante l’incontro, l’idea che i migranti siano ladri di lavoro è molto maschile.  Le donne migranti, invece, non sono realmente rappresentate nei media come ladre di lavoro, ma come obbedienti vittime passive delle loro presunte culture arretrate. Questa è la sessualizzazione del razzismo. Le donne vengono presentate come vittime per le quali, se correttamente assimilate, si può fare spazio – mentre gli uomini migranti sono gli “altri” irrecuperabili.

Una conclusione che emerge dal libro e che sarebbe utile discutere è il tema dei diritti che da anni è diventato dominante nel pensiero politico. Un argomento che diventa ambiguo e manipolabile ideologicamente. Forse il tema dell’uguaglianza e della lotta contro il suprematismo bianco, in qualsiasi forma si manifesti, è un terreno più solido delle lotte per la libertà femminile. Forse è proprio il neo liberismo e tutte le ideologie ad esso collegate a dover essere sconfitte. Senza questa consapevolezza, le lotte delle donne rischiano di rimanere dipendenti  da sistemi economici e culturali ostili da millenni alla libertà femminile. Vediamo come i temi e gli slogan del femminismo vengano usati per chiudere spazi di libertà e per descrivere il patriarcato solo come un errore, un impedimento da correggere sulla via del progresso, ma sappiamo anche come, proprio nei femminismi, ci siano le possibilità di resistere ad ogni femonazionalismo.

Si può vivere senza cura? (a cura di Giuditta Serra)

“In questo mondo l’incuria regna sovrana”

The Care Collective, Manifesto della Cura

Come ben spiegato da The Care Collective in Manifesto della Cura, da quando le democrazie occidentali hanno abbracciato le politiche economiche del capitalismo neoliberista la crisi della cura si è aggravata: a partire dagli anni 80 del novecento, infatti, lo smantellamento sistematico delle politiche sociali e delle comunità ha portato ad una crisi che ha mostrato tutta la sua gravità in questo anno di pandemia[1]. Da decenni gli stati scelgono di ritirarsi dai compiti di cura lasciando indietro le persone più vulnerabili, deboli, povere e sole; scelta particolarmente grave in quanto non motivata da un effettivo calo dei bisogni o dall’integrazione di soluzioni alternative. Questo andamento provoca sostanzialmente due ordini di conseguenze a livello sociale: un generale abbassamento della qualità della vita e del benessere delle persone più fragili (solitudine, malattia e impoverimento[2]) e un appesantimento del carico di lavoro di cura invisibile, informale e non retribuito… svolto in massima parte dalle donne[3]. In quest’ottica i mancati investimenti nel welfare non sono stati veri e propri risparmi in quanto ci si è limitati a scaricare sulle donne il conto di quei servizi di cura che dovevano comunque essere garantiti[4]: basti pensare che in Italia solo il 13.5% dei bambini e delle bambine ha un posto nei nidi pubblici[5] o all’impatto che la DAD ha avuto sul lavoro delle donne durante i mesi di pandemia[6].

Crediamo sia giunto il momento di dare la giusta rilevanza politica al tema della cura; e il discoro che vogliamo affrontare prende le mosse da una premessa fondamentale, ossia da un ripensamento radicale della categoria di soggetto/cittadino che raccolga il guadagno di un certo pensiero femminile e femminista europeo e statunitense. La politica che ci interessa, infatti, non intende occuparsi dell’individuo così come teorizzato dalla politica moderna, ossia un soggetto sano, indipendente, autonomo e razionale, perché questa definizione non descrive le persone reali. La politica che ci interessa vuole occuparsi degli esseri umani: bambini e bambine, adolescenti, donne e uomini, persone malate, disabili, anziane e anziani, donne in gravidanza, genitori… persone che vivono nella società con i propri corpi relazionali, vulnerabili, fragili, interconnessi e dipendenti. Perché è così che siamo: fin dal momento della nascita gli esseri umani hanno necessariamente bisogno di cure per poter vivere[7]! Infanzia, malattia, gravidanza, disabilità e vecchiaia non sono stati eccezionali e temporanei, ma momenti naturali e fondamentali della vita durante i quali le persone hanno bisogno di cure per poter vivere; di cure adeguate e professionali per vivere bene.

Per troppo tempo “la dipendenza dalla cura è stata patologizzata anziché essere riconosciuta come parte integrante della condizione umana”[8] e troppo a lungo il lavoro di cura è stato considerato una questione privata o di second’ordine; è giunto il momento che la cura diventi principio organizzatore della società e della politica.

Per usare le parole di The Care Collective, come persone e come comunità abbiamo bisogno di una cura che sia condivisa, collettiva, universale e promiscua[9], attivata attraverso il lavoro relazionale delle comunità e organizzata a livello istituzionale grazie alla creazione di servizi pubblici. Vogliamo una cura che si occupi delle persone e dei loro corpi, ma anche dei bisogni relazionali, educativi e culturali; una cura che non offra solo la sopravvivenza, ma che garantisca una vita buona alle persone più fragili. Una cura che tenga in considerazione la reciproca interdipendenza e favorisca il proliferare di legami sociali, grazie all’accesso a luoghi pubblici di comunità e democrazia; una cura verso il mondo urbano e naturale.

In questa prospettiva è necessario che l’intera società sia coinvolta nelle attività di cura, al di fuori dei limiti familiari e in una prospettiva di corresponsabilità nei confronti della comunità, degli stati esteri e dell’intero pianeta[10]; perché “…là fuori ci sono altri da cui dipende la mia stessa vita. Persone che non conosco e non conoscerò mail. (…) Nessuna misura di sicurezza potrà impedire tale dipendenza, nessun atto violento di sovranità potrà liberarci da tale condizione”[11]. Sebbene queste righe siano state scritte in un contesto molto diverso da quello attuale, mai come oggi risuonano vere: davanti all’aggravarsi della crisi climatica e nel vortice dell’attuale pandemia emerge chiaramente il legame profondo che lega le nostre vite a quelle di persone vicine e lontane, al mondo naturale e al pianeta tutto. Da qui sorge[12] il dovere politico di prendercene cura.


[1] The Care Collective, Il manifesto della Cura, Alegre Editori, Roma 2020, p. 19.

[2] È consolidata da decenni la tendenza globale ad accentrare la ricchezza nelle mani di pochi a discapito di larghe fasce della popolazione mondiale, fenomeno che interessa anche le democrazie europee. Per una panoramica sulla situazione in Italia si veda il rapporto Oxfam Italia 2021: https://www.oxfamitalia.org/disuguitalia-2021/#:~:text=Il%20panorama%20delle%20disuguaglianze%20economiche,all’epoca%20del%20COVID%2D19&text=A%20met%C3%A0%202019%20%E2%80%93%20secondo%20gli,met%C3%A0%20pi%C3%B9%20povera%20della%20popolazione.  

[3] Caroline Criado-Perez, Invisibili, Einaudi Editore, Torino 2019, pp. 348-349.

[4] Ibidem, p. 345.

[5] https://www.istat.it/it/archivio/236666

[6] https://www.istat.it/donne-uomini/bloc-3d.html?lang=it

[7] Adriana Cavarero, Inclinazioni, Raffello Cortina Editorie, Milano 2013, pp. 141-142.

[8] The Care Collective, Manifesto della Cura, cit., p. 37.

[9] Ibidem, p. 53.

[10] Ibidem, p. 33.

[11] Judith Butler, Vite Precarie, Maltemi Editore, Milano 2004, cit., p. 10.

[12] Adriana Cavarero, Democrazia sorgiva, Raffello Cortina Editorie, Milano 2019, p. 25.

#cittàpertutte: una campagna di “gender mainstreaming” urbano (a cura di Michela Nota)

“Gli spazi pubblici fanno da cornice a una miriade di interazioni sociali di genere. Come risultato di questi interazioni, diventano gli stessi spazi pubblici di genere”

(UN Women 2016)

Partendo da questa considerazione abbiamo lanciato la campagna #cittàpertutte, per richiamare l’attenzione all’equità di genere negli spazi pubblici della nostra città. Il contesto urbano e la vita cittadina hanno un impatto sociale, culturale, contestuale e relazionale decisivo sulla vita delle persone che abitano questi spazi; per questo è necessario cambiare approccio nella progettazione urbana. Sono infatti le persone a dover essere messe al centro dell’attenzione quando si pensa agli spazi pubblici, con uno sguardo alle esigenze di ognuna di esse.

Purtroppo, troppo spesso l’essere umano viene concepito solo come universale e nella progettazione delle città si pensa a un fruitore-Uomo con la U maiuscola, quindi non vengono prese in considerazione le esperienze sensoriali, i bisogni e il modo di vivere la città di tutte quelle persone che non sono comprese da questo soggetto che si pretende universale. Scrive Leslie Kern in Feminist City: «The city has been set up to support and facilitate the traditional gender roles of men and with men’s experience’s as the “norm” […]. This is what I mean by the “city of men”». Il soggetto universale per cui sono pensate le città è un «uomo bianco di mezza età» e le barriere fisiche, sociali, economiche e simboliche che le donne percepiscono nelle loro vite quotidiane sono invisibili agli uomini, poiché nelle loro esperienze quotidiane raramente le incontrano.

Nella progettazione della città viene troppo spesso trascurata l’esperienza vissuta dalle persone, a partire dai corpi e dalla loro relazione con lo spazio; infatti, le esperienze di ciascuna/o dipendono dal sesso, dall’età e dal contesto di appartenenza. Le città sono pianificate come se tutti avessero gli stessi prerequisiti per viverla ed essere attivi in essa, ma questo vuol dire pianificare gli spazi urbani per un unico tipo di individuo che molto spesso è sia soggetto d’indagine, che decisore politico e urbanista. Questa semplificazione può generare problematiche dal punto di vista sociale, culturale e della salute della cittadinanza, in quanto può dissuadere alcune persone dall’utilizzare gli spazi pubblici in quanto percepiti come pericolosi o inaccessibili: marciapiedi troppo stretti per passeggini o carrozzine, parchi o vie poco illuminate e mancanza di bagni pubblici puliti e sicuri sono alcuni semplici esempi di barriere che le donne incontrano nel vivere la città.

Per uno sviluppo urbani femminile delle città bisogna senza dubbio partire da un ripensamento della mobilità, in quanto le esigenze delle donne sono molto diverse da quelle degli uomini dal momento effettuano spostamenti più brevi e frequenti dei maschi e molto spesso si spostano a piedi e utilizzano più spesso i mezzi pubblici (basti pensare alle commissioni quotidiane o alle esigenze di bambini e bambine). In secondo luogo acquista grande importanza il tema dell’illuminazione, soprattutto durante le ore più buie o nelle zone meno frequentate, così come una progettazione che incoraggi la frequentazione degli spazi più nascosti in modo che le donne non si sentano sole; a questo si aggiunge il tema della dimensione degli spazi, non aperti e ampi ma frazionati in porzioni più piccole e raccolte, a misura di essere umano, spazi pubblici che facilitino il dialogo, la socializzazione e l’interazione; infine, le donne manifestano la necessità di avere a disposizione bagni pubblici puliti e spazi nella città in cui poter trovare un po’ di riservatezza per allattare il/la proprio/a figlio/a.

La prospettiva femminile intersezionale (ovvero che incrocia le caratteristiche di genere, classe, abilità e razza) nello sviluppo urbano cerca di affrontare proprio questa sfida. Comprendendo meglio l’uso degli spazi da parte di donne, bambini, persone anziane e gruppi minoritari, e ascoltando le loro idee rispetto a ciò che rende vivibile una città, possiamo scoprirla con nuovi occhi e prendere in considerazione aspetti sociali e culturali prima inascoltati. Un approccio da un punto di vista femminile alla pianificazione urbana può inoltre creare condizioni migliori per la salute pubblica, sociale e mentale, oltre a quella fisica, sfidando la città a promuovere la salute per tutti i diversi tipi di persone. L’invisibilità delle donne – per utilizzare un’espressione di Caroline Criado-Perez – e la cecità dello sguardo maschile dinanzi alle necessità femminili è evidente in ogni ambito e, a fronte di questo, occorre dare voce e figura alle donne. Mettere un simbolo che renda di genere femminile gli individui rappresentati sulla segnaletica stradale è per Cittàperta un modo di chiedere questo cambiamento di prospettiva denunciando l’invisibilità del femminile, che spesso viene interiorizzata come “naturale” anche dalle donne stesse.

Lo sviluppo urbano da un punto di vista femminile è uno strumento inclusivo per tutti i gruppi demografici, che richiede di prendere avvio dalla comprensione dei diversi valori, background sociali e culturali che le donne hanno. Questo approccio deve essere preso in considerazione per progettare nuovi spazi urbani e deve essere considerato anche in quelli esistenti, al fine di comprendere quali interventi possono essere pensati per incoraggiare e incentivare la partecipazione di una maggiore diversità di utenti.